Archive for October 2012
Una delle parole più comuni e dal significato più oscuro e ambiguo è la parola democrazia. Ne conosciamo veramente il significato? Davvero basta un’infarinata di elezioni qualunque per qualificare un sistema come democratico? In questo sito abbiamo più volte spiegato che non è così.
Per riconoscere una democrazia da un sistema elitario, che maschera il privilegio dietro, appunto, un’infarinata di elezioni qualunque, e metodi di selezione dei candidati sapientemente gestiti in modo da impedire il libero accesso dei cittadini alle cariche pubbliche, in questo sito e nel libro abbiamo proposto quello che abbiamo chiamato “il criterio della cassiera“, che ora rienunciamo in forma generale.
Il criterio della cassiera
Un sistema politico è una democrazia rappresentativa se e solo se qualunque cittadino eleggibile si può candidare a qualunque carica pubblica, in qualunque tornata elettorale, con effettive possibilità di vincere.
L’eleggibilità può essere vincolata solo da blandi limiti di età, da requisiti di nascita o residenza nel territorio nazionale o nel territorio di competenza della carica pubblica.
In breve, anche una cassiera di supermercato deve potersi candidare a premier con effettive possibilità di vincere, e le sue possibilità di vincere devono essere uguali alle possibilità di chiunque altro, di chi è già famoso come di chi è straricco. L’immagine della cassiera di supermercato che diventa premier mi è stata suggerita dal caso di una cassiera dell’Esselunga, Giusy Ferreri, che nel 2008 divenne una star della canzone grazie ad un programma televisivo, X Factor, che si proponeva appunto di andare a cercare talenti e farli emergere. Precisa o meno che sia questa “favola a lieto fine”, probabilmente senza quello strumento la cassiera sarebbe rimasta cassiera per tutta la vita e del suo talento si sarebbero accorti in pochi.
Quante sono le persone, in Italia, che hanno talento per fare politica e contribuire alla crescita del proprio paese, ma non avranno mai la possibilità di mettere a frutto le loro capacità, a causa di un sistema di partiti che blocca ogni loro tentativo sul nascere, e le respinge ed allontana invece che aiutarle ad emergere? Qual’è il danno che un paese, o una società di individui, infliggono a loro stessi impedendosi di mettere a frutto queste incredibili risorse, per soddisfare le bramosie di un branco di politicanti?
Ci sono 60 milioni di individui in Italia: conviene davvero restringere la scelta di un premier ad una manciata di persone facenti parte di una manciata di combriccole? Qual’è la probabilità che il premier migliore per il paese sia proprio una delle persone che fanno parte di quelle combriccole?
E comunque, si può davvero chiamare democrazia un sistema che funziona così? Ovviamente, no.
Per fare emergere le persone con il talento richiesto occorre uno strumento che agevoli la loro candidatura, la loro “discesa in campo”, come pure la valutazione dei candidati da parte degli elettori, e annulli il vantaggio di chi è già noto o ricco, o almeno impedisca che quel vantaggio si trasformi in privilegio. Il meccanismo deve funzionare in modo sufficientemente diluito nel tempo, perché non è possibile passare al setaccio 60 milioni di persone se si vota in tutto il territorio nazionale nello stesso giorno. Questo strumento esiste ed è il sistema delle primarie sequenziali in crescendo correlate alla convention, qui battezzato con la sigla PSC. Praticamente, è il sistema utilizzato negli Stati Uniti per le elezioni presidenziali. In quel paese vengono impiegati ben due anni per selezionare il nuovo presidente, con regole chiare e con una competizione che dà a tutti una possibilità.
Per concludere, l’Italia non è una democrazia, primo perché sicuramente non è una democrazia diretta, secondo perché non è nemmeno una democrazia indiretta, visto che il suo sistema politico non soddisfa il criterio della cassiera. Allo stesso modo, non sono democrazie i sistemi politici adottati nei paesi europei. Ancora oggi nel mondo soltanto gli Stati Uniti d’America sono una democrazia.
I dibattiti televisivi si sono conclusi e le elezioni presidenziali americane sono alle porte. Nel complesso, Romney e Ryan ne escono abbastanza bene.
A detta dei sondaggi, quella inflitta da Romney ad Obama nel primo dibattito è stata la più sonora sconfitta della storia. Cioè non si era mai visto uno stacco tanto grande tra le percentuali di telespettatori che attribuivano la vittoria ai due candidati. Nei dibattiti successivi Obama e Biden sono passati alla controffensiva, ma hanno giocato troppo spesso la carta dell’aggressività accompagnata da toni arroganti ed irrisori. Quella strategia è sicuramente servita a galvanizzare la base dell’elettorato democratico. Tuttavia, in generale i dibattiti televisivi hanno tutt’altro scopo, cioè quello di attrarre gli indecisi dalla propria parte. Romney se l’è cavata bene, dando un’immagine presidenziale e affidabile di sè. Per certi versi nell’ultimo dibattito, che verteva sulla politica estera, sembrava che lo sfidante fosse Obama e il presidente in carica fosse Romney.
Possiamo prendere spunto da questo aspetto delle elezioni presidenziali americane per sviluppare ulteriormente un discorso più ampio affrontato in questo sito, cioè che una democrazia rappresentativa è tale se e soltanto se soddisfa il criterio della cassiera: qualunque cittadino eleggibile deve potersi candidare a qualunque carica pubblica in qualunque tornata elettorale con effettive possibilità di vincere. Sappiamo che, tra le altre cose, per ottenere questo risultato occorre organizzare primarie sequenziali in crescendo, correlate con la convention, affinché il vantaggio di chi è già noto o ricco rimanga appunto un vantaggio e non diventi privilegio.
Ora possiamo affermare che in quest’ottica si rivelano non solo utili, ma addirittura cruciali, anche i dibattiti televisivi. Li chiamiamo così anche se ovviamente il fatto che siano fruibili dalla televisione, o come avviene oggi anche da internet o con altri mezzi di comunicazione, conta poco. Ciò che è importante, e che si è potuto chiaramente apprezzare grazie ai dibattiti televisivi americani relativi alle elezioni presidenziali, è che questi dibattiti garantiscono che il vantaggio di cui gode un presidente uscente o chi è favorito dai sondaggi rimanga appunto un vantaggio e non si traduca in un privilegio.
Spieghiamo meglio cosa è successo. Per mesi Obama ha speso centinaia di milioni di dollari in messaggi pubblicitari che avevano come unico scopo ridicolizzare il suo avversario, dipingerlo come un riccone sconnesso dal mondo, che non si cura dei poveri e che vuole riportare le lancette dell’orologio indietro di trent’anni. La cosa più triste è che era brillantemente riuscito nel suo scopo. Chi non seguiva la politica da vicino, cioè la maggior parte degli elettori, si era fatta questa opinione di Romney. Il primo dibattito televisivo è servito a spazzarla via d’un colpo, i dibattiti successivi a rafforzare l’immagine presidenziale che Romney ha voluto dare di sè. Non c’è dubbio che senza i dibattiti televisivi molte massaie crederebbero ancora che Romney è un rozzo e un bigotto. Ora invece, come candidamente ammesso da un’ospite di un famoso programma televisivo indirizzato al pubblico femminile (“The view”), l’opinione prevalente è completamente ribaltata rispetto a quella pre-dibattiti, e Romney è visto come un candidato votabile con tranquillità da chiunque ed eventualmente un presidente che può essere accettato da chiunque.
Per questo motivo, anche in Italia i dibattiti tra i candidati alla presidenza del consiglio dovrebbero essere obbligatori, con penalità per chi vi si sottrae, come l’imposizione o la riduzione consistente (diciamo il 50%) del tetto di spesa per la campagna elettorale. Permettere che il favorito si sottragga, come fece Berlusconi sia nel 2001 che nel 2008, vuol dire andare nella direzione esattamente opposta a quella indicata qui.
All’età di 90 anni è morto l’ex senatore al Congresso degli Stati Uniti George McGovern. Poco più di quarant’anni fa, McGovern fu il protagonista principale della transizione dal sistema dei partiti-apparati al sistema dei partiti governati dagli elettori, grazie alla riforma McGovern-Fraser. Essa modernizzò il partito democratico americano, stabilendo che tutti i delegati alla convention devono essere scelti dagli elettori, con modalità tali da riflettere fedelmente la volontà degli elettori del partito. Prima di quella riforma il partito era in mano a boss e capi-fazione che, per una via o per l’altra, riuscivano a nominare d’autorità gruppi di delegati, per poi manipolarli a piacimento.
Negli stati a maggioranza democratica le leggi che governavano le primarie pubbliche furono adattate alla riforma. Per non dover organizzare primarie autogestite, e quindi accollarsene le spese, anche il partito repubblicano si adattò subito al nuovo sistema.
A McGovern va dunque il merito di aver cambiato completamente la politica degli Stati Uniti, facendole fare un progresso senza uguali nella storia. Dal 1972 gli Stati Uniti d’America sono l’unica democrazia rappresentativa al mondo, nel senso che il loro sistema politico soddisfa il criterio della cassiera.
Potete leggere maggiori dettagli nella parte storica del libro.
McGovern si candidò alle elezioni del 1972, ma fu sconfitto dal presidente uscente Richard Nixon. McGovern riuscì ad ottenere la nomina del partito democratico anche grazie alle nuove regole. I maligni, cioè i capi-partito caduti in disgrazia, dissero che “si era fatto le regole apposta per vincere”. La realtà è invece che con quelle regole, che in quarant’anni hanno subito poche modifiche, nessuno è sicuro di vincere, perché il risultato è determinato unicamente dagli elettori. Lo sa Hillary Clinton, che, favorita, nel 2008 dovette cedere ad un nuovo arrivato, tale Barack Obama, e lo sa Mitt Romney, che quest’anno stava per essere scalzato via da Rick Santorum, un candidato che prima dei caucus dell’Iowa era dato al 3% dai sondaggi nazionali.
A questo punto viene spontaneo chiedersi: quanto tempo dovremo aspettare per avere in Italia il nostro McGovern?
Sabato scorso, il 6/10/2012, si è tenuta a Pisa una riunione organizzata da Zero Positivo e Fermare il Declino a cui ha partecipato, tra gli altri, l’economista Michele Boldrin. Durante la riunione si è parlato anche di primarie e così ho deciso di diffondere il progetto dei partiti aperti anche presso i partecipanti a quella conferenza. Successivamente ho mandato a Boldrin una mail con i dettagli.
A Boldrin ho spiegato le “primarie sequenziali in crescendo“, quelle che agevolano massimamente la discesa in campo di candidati anche sconosciuti o privi di grandi disponibilità finanziarie (al limite, una cassiera di supermercato) dando loro effettive possibilità di vincere. Sottolineo che il sistema non è pensato per dare ai candidati unicamente la possibilità teorica di vincere, ma garantisce la possibilità pratica di colmare in pochi passaggi (le prime primarie della sequenza) il gap di notorietà che li svantaggia rispetto ai candidati noti, in modo che quello svantaggio rimanga svantaggio e non diventi una condanna, e in modo che il vantaggio di chi è noto rimanga vantaggio e non diventi privilegio.
Le idee chiave sono:
1) le primarie sono sequenzializzate con un sistema “in crescendo“;
2) le primarie sono correlate alla convention, ed eleggono i delegati alla convention.
Più precisamente, la stagione delle primarie dura qualche mese. Si vota nelle varie regioni a una settimana di distanza l’una dall’altra, cominciando dalle regioni più piccole, dove si usa il sistema proporzionale, e finendo colle regioni più grandi, dove si usa il sistema del vincitore pigliatutto: prima in Molise, una settimana dopo in Abruzzo, una settimana dopo nelle Marche, ecc., per finire colla Sicilia e la Lombardia.
Come spiegato in questo post, la convention è cruciale, perché rappresenta il “governo popolare del partito” e rimpiazza gli apparati, come successe quarant’anni fa negli USA colla riforma McGovern-Fraser (per dettagli su questo si veda il libro). Le regole delle primarie (successive) le stabiliscono i delegati alla convention, non gli apparati, che sono semplicemente assenti.
In teoria, c’è tempo di realizzare il progetto anche per le elezioni politiche dell’anno prossimo. Anche perchè, sequenzializzandole, le primarie sono molto più facili da organizzare, si impara strada facendo, sono necessarie meno persone per gestirle, la gente ha tempo di fare passaparola e diffondere il messaggio, e i mezzi di comunicazione non resisterebbero al fascino di una competizione combattuta e prolungata. Combinandole poi con le primarie online, basterebbe tenere aperti i seggi fisici per poche ore.
La risposta di Boldrin è stata positiva. Se ci sono sviluppi vi terrò informato. D’altro canto sembra che Italia Futura, con cui Zero Positivo e Fermate il Declino stanno dialogando, sia contraria alle primarie. La cosa non sorprende nessuno: Italia Futura non sembra affatto un movimento democratico, sembra più che altro un movimento elitario. Devo dire che, a parte Boldrin, anche gli altri intervenuti alla conferenza di sabato scorso sembravano poco inclini a sentimenti genuinamente democratici.
Come riportato qui, mesi fa ho fatto la stessa proposta (che potete consultare qui) di primarie sequenziali in crescendo correlate alla convention al segretario del PdL Angelino Alfano, inutilmente. Gli ho recentemente chiesto un incontro (me lo aveva promesso allora), ma sto ancora aspettando risposta.
In questi giorni il PD sta decidendo, con modalità a dire il vero oscure ai più, le regole delle sue primarie. Come più volte spiegato in questo sito (vedi qui, qui e qui), le primarie del PD non sono vere primarie democratiche, perché non soddisfano il criterio della cassiera, cioè non permettono a persone poco conosciute di candidarsi con effettive possibilità di vincere, ma restringono l’insieme dei “papabili” a una piccola casta di personaggi già politicamente affermati, rendendoli di fatto privilegiati rispetto a tutti gli altri elettori del partito.
Le diatribe interne al PD ci mostrano ancora una volta, quasi ce ne fosse bisogno, il ruolo vitale della convention nei partiti americani, dove i delegati eletti con le primarie, semplici elettori tra elettori, governano il partito, in particolare stabiliscono le regole per le elezioni primarie successive, in modo che non siano i contendenti a farsi le regole su misura a ridosso della nuova competizione o a competizione in corso. Questo è proprio quello che sta succedendo ora nel PD.
La convention rimpiazza gli apparati. Nei partiti che non si dotano di questo strumento di governo popolare una casta di privilegiati riesce in breve tempo a impossessarsi del partito a scapito di tutti gli altri, e a conquistare gradualmente posizioni da cui non si schioderà mai più. Per la cronaca, l’assemblea del PD chiamata a votare sulle regole delle primarie non ha nulla a che spartire con le convention dei partiti americani moderni.
Le primarie del PD sono così chiuse che più chiuse non si può. Per prima cosa, all’elettore viene chiesto di pagare per il suo voto, cosa proibita nelle primarie americane. Si tratta di una mini-iscrizione, di fatto. Una specie di iscrizione ricaricabile invece che in abbonamento, una “pay-per-vote“, dove paghi solo quando vuoi partecipare. In secondo luogo, a chi si reca alle urne viene chiesto di sottoscrivere una dichiarazione di adesione ai valori e programmi del partito, o della coalizione. Questo è precisamente ciò che negli Stati Uniti definisce le primarie come primarie chiuse. Come non bastasse, ora vorrebbero istituire un albo degli elettori, una pre-registrazione, e tante altre amenità che soltanto menti veramente “illuminate” possono concepire.
I “dirigenti” del PD spiegano che le precauzioni sono necessarie per evitare che vengano a votare i sabotatori dei partiti avversari. E’ una scusa vecchia come il cucco. Di precauzioni alternative per impedire ai sabotatori di sabotare ce ne sono infinite (tra l’altro, il problema del sabotaggio avversario non si pone nemmeno nelle primarie sequenziali), ma le scelte fatte dai “dirigenti” del PD hanno tutto il sapore si scelte studiate a tavolino per favorire un candidato e svantaggiare un altro candidato.
A Renzi posso solo dire questo: invece che cercare di cambiare il tuo partito, cambia partito. Siccome però di partiti americani in Italia non ce ne sono, creane tu uno a partire dal consenso che hai. Con i metodi dei partiti americani spiegati in questo sito puoi arrivare in pochi anni al 51%.