2008: le primarie più combattute della storia

Nelle tornate elettorali successive non si registrarono eventi di particolare nota, fino al 2008. Molte primarie furono combattute, ma il vincitore emerse sempre con anticipo. Le convention si svolsero in un clima tranquillo. I presidenti uscenti non furono più messi in discussione da avversari interni. Le riforme del processo di selezione dei delegati procedettero fino al 1996, quando si raggiunse una certa stabilità mantenuta fino ad oggi. Per gli scopi di questo scritto possiamo saltare direttamente all’attualità, cioè alle elezioni presidenziali del 2008 e 2012, che registrarono importanti novità.

Le primarie democratiche del 2008 furono le più combattute della storia. Esse videro affrontarsi Hillary Clinton, moglie dell’ex-presidente Bill Clinton e senatrice di New York, Barack Obama, senatore dell’Illinois, e John Edwards, che aveva corso anche quattro anni prima. Furono però Clinton e Obama i due contendenti principali. Clinton annunciò la sua candidatura nel gennaio 2007, Obama all’inizio di febbraio. In quel periodo e per tutto il 2007 i sondaggi [55] diedero Clinton in vantaggio di 15-20 punti percentuali su Obama. Non c’era dubbio che Clinton era la candidata favorita dall’establishment democratico e per lungo tempo si ritenne che la sua nomina fosse praticamente scontata. Semmai, si pensava che la rivelazione potesse essere Edwards, mentre Obama non faceva ancora parlare di sè. Tuttavia, il consenso a favore di Obama crebbe col passare del tempo e lo portò, all’inizio del 2008, alla vittoria a sorpresa nei caucus dell’Iowa, che si tennero il 3 gennaio, dove battè Clinton col 37,6% dei voti contro il 29,6%. In Iowa Clinton fu superata addirittura da Edwards, che ottenne il 29,8%. Tuttavia, Clinton si rifece appena 5 giorni dopo nelle primarie del New Hampshire, quando ottenne il 39%, staccando Obama del 3% ed Edwards del 22%.

Una settimana dopo si tennero le contestate primarie del Michigan. Anticipando eccessivamente le proprie primarie per dare loro maggiore visibilità e contestare apertamente i privilegi concessi all’Iowa e al New Hampshire, il Michigan aveva violato le regole del partito, stabilite dalla convention nazionale precedente. Il comitato nazionale democratico, che come sappiamo viene eletto dai delegati della convention per rappresentarli fino a quella successiva, decise di sanzionare il Michigan riducendo il numero di delegati a cui aveva diritto, che era originariamente 156, a zero. Questa decisione drastica fu contestata dal partito statale e dalla Corte Suprema del Michigan, la quale sancì che le primarie si sarebbero tenute regolarmente, in attesa delle decisioni della nuova convention. Obama ed Edwards decisero di ritirarsi dalle primarie del Michigan in segno di protesta, così i loro nomi non figurarono nemmeno sulle schede di voto. Clinton ottenne il 55% dei voti, mentre il 40% andò ai delegati non-impegnati. Nel maggio 2008 la commissione per le regole del comitato democratico nazionale stabilì che i delegati eletti in Michigan avevano diritto di sedersi e votare alla convention, ma il voto di ciascuno avrebbe avuto valore uguale a 1/2.

Dopo il Michigan Clinton prevalse di poco nei caucus del Nevada, Obama di molto nelle primarie della Carolina del Sud. A fine gennaio ci furono le primarie della Florida, contestate come quelle del Michigan. Anche la Florida aveva cercato di anticipare le proprie primarie contro le regole nazionali del partito e fu penalizzata. Stavolta i nomi di Obama ed Edwards figurarono sulle schede elettorali, ma i due candidati rifiutarono di fare campagna elettorale in quello stato. Clinton ottenne il 50%, Obama il 33% ed Edwards il 14,4%. Constatate le scarse possibilità di vincere, John Edwards si ritirò dalla corsa il giorno dopo.

Il 5 febbraio ci fu il supermartedì, che vide Obama vincere in 13 stati e Clinton in 9, tra cui la California e New York, più un territorio. Il supermartedì non bastò a sancire il vincitore e la competizione continuò. Nel resto di febbraio Obama prevalse in tutti gli 8 stati e i 2 territori in cui si votò, più il Distretto di Columbia. Il 3 marzo, battezzato “mini-supermartedì”, Clinton si aggiudicò 2 stati e Obama 1, mentre in Texas i due contendenti finirono praticamente alla pari. Quel giorno in Texas si tennero sia delle primarie che dei caucus. Clinton prevalse nelle prime, Obama nei secondi. Il totale vide Obama raccogliere in Texas una manciata di delegati in più di Clinton. Nel frattempo, la raccolta di fondi cominciava a premiare Obama e a penalizzare Clinton. La diffusione dei dati sulla raccolta di fondi da parte dei media amplificò questi effetti. Nel resto della stagione Obama si aggiudicò 4 stati, Clinton 5 stati e un territorio, mentre in un altro territorio i due finirono alla pari. Le ultime primarie si tennero il 3 giugno, quando Obama e Clinton si aggiudicarono uno stato ciascuno. Da quel momento Obama, che nel computo totale dei delegati giurati era in vantaggio su Clinton, ricevette l’appoggio di molti superdelegati, cosa che gli permise di dichiararsi pubblicamente vincitore. Clinton accettò la sconfitta 4 giorni dopo.

Nel computo finale, Obama ottenne la maggioranza assoluta dei voti attribuiti ai delegati giurati (1766,5), cioè i delegati assegnati con le primarie e i causus. Clinton ed Edwards ottennero 1639,5 e 24,5 voti, rispettivamente. Tuttavia, per mettere la nomina al sicuro occorre ottenere più della maggioranza assoluta dei voti dei delegati giurati, e compensare la presenza dei superdelegati. Obama non riuscì a raggiungere questo risultato. Edwards decise di appoggiare Obama, ma anche contando tutti i suoi delegati come delegati di Obama, la situazione non cambiava. La decisione finale fu dunque, per la prima e per ora unica volta nell’epoca moderna, in mano ai superdelegati. Nonostante ciò, i superdelegati si distribuirono tra i due contendenti rimasti in campo in maniera conforme al risultato del voto popolare, sancito dalle primarie. Degli 823 superdelegati, 463 si schierarono per Obama, 257 per Clinton.

In definitiva, i superdelegati presero atto della volontà popolare e si adeguarono di conseguenza. L’esatto contrario di quello che era successo tante volte prima delle riforme del 1972. Lo dimostra anche il fatto che prima dell’inizio delle primarie i superdelegati tendevano a schierarsi prevalentemente con Clinton. Durante la stagione delle primarie coloro che dichiaravano il proprio appoggio ad Obama aumentarono gradualmente di numero. Alla fine molti superdelegati che si erano inizialmente schierati per Clinton cambiarono idea e sostennero Obama. Erano ormai un vago ricordo le convention in cui l’establishment ribaltava senza alcuna remora la volontà popolare.

Le primarie più combattute della storia furono anche le più partecipate, superando i 37 milioni di elettori. Le primarie repubblicane si fermarono a 20 milioni e mezzo, comunque un ottimo risultato se paragonato ai dati degli anni precedenti (vedi tabella II).

Anche le primarie repubblicane suscitarono interesse, soprattutto nella fase iniziale. I candidati principali furono Mike Huckabee, già governatore dell’Arkansas e pastore battista, Mitt Romney, già governatore del Massachusetts, mormone, uomo d’affari di grande successo, e il sentatore John McCain, che aveva corso già quattro anni prima contro Bush. Per la verità, inizialmente la lista dei candidati favoriti comprendeva anche Fred Thompson, già senatore dal Tennessee, e Rudolph Giuliani, già sindaco di New York, e non comprendeva Mike Huckabee, che fu la rivelazione repubblicana. Rimasto in fondo ai sondaggi per buona parte del 2007, Huckabee emerse dal nulla a ridosso dei caucus dell’Iowa, dove arrivò primo col 34,4%, davanti a Romney col 25%, Thompson e McCain appaiati intorno al 13% e Giuliani al 3%. Nella prima parte del 2007 McCain era il favorito nei sondaggi, ma poi il suo consenso declinò gradualmente, fino al giorno in cui si aggiudicò nettamente le primarie del New Hampshire davanti a Romney e Huckabee. Quella vittoria gli valse in pratica la nomina, anche se la competizione tra McCain, Romney e Huckabee rimase viva fino al supermartedì di inizio febbraio. Giuliani commise l’errore di puntare tutto sulla Florida, stato in cui era favorito, e trascurò le competizioni iniziali. Quando si votò in Florida, a fine gennaio, gli avversari arrivarono sorretti dall’onda lunga del consenso accumulato nelle competizioni precedenti, e Giuliani dovette accontentarsi del terzo posto, superato sia da McCain che da Romney, appena sopra Huckabee. Giuliani si ritirò subito dopo, mentre nel frattempo si era ritirato anche Thompson. Romney si ritirò un po’ a sorpresa subito dopo il supermartedì. Il ritiro di Romney chiuse di fatto la competizione. Huckabee rimase in gara, con poche speranze, fino all’inizio di marzo. In totale, Romney si aggiudicò 11 stati, Huckabee 8 e McCain tutti gli altri.

I repubblicani pensavano di approfittare della litigiosità dei democratici e avvantaggiarsene. Credevano che una competizione fratricida come quella democratica potesse avere un effetto negativo sugli elettori di quel partito. Si erano convinti che mostrando prima possibile coesione e unità attorno a un candidato potessero capitalizzare consenso ai danni dei loro avversari. A questo proposito, occorre ricordare che mentre le primarie democratiche sono regolate col sistema proporzionale, molte primarie repubblicane sono ancora decise col sistema “chi vince piglia tutto”. Il sistema proporzionale di fatto prolunga la competizione, perché chi perde può raccogliere ugualmente delegati se ottiene un buon piazzamento. Invece, adottare il sistema del “vincitore piglia tutto” nelle prime primarie della stagione ha l’effetto di innescare una specie di meccanismo tipo “terno al lotto”, per cui una o due vittorie possono di fatto bastare per consegnare la nomina a un candidato. Gli altri candidati validi possono vedere sfumare le proprie chances da un momento all’altro. Tuttavia, nel 2008 i repubblicani non riuscivano ancora ad apprezzare questi problemi, convinti che fosse fondamentale stringere il partito attorno al vincitore già a febbraio. Spesso sui mezzi di comunicazione si sentiva parlare, durante la stagione delle primarie repubblicane, di “telefonate” fatte dai leader più influenti del partito ai candidati temporaneamente in svantaggio, come Huckabee e Romney, per indurli a ritirarsi presto, “nell’interesse del partito”. Per quanto smentite, quelle voci sono verosimili. Anche i giornalisti di area conservatrice che seguivano le primarie si allineavano a questi comportamenti, anticipando l’uscita di scena di candidati in svantaggio e concentrandosi sul vincitore presunto, di fatto agevolando l’evolversi degli eventi verso l’epilogo prestabilito. Si trattava chiaramente di interferenze sul processo decisionale degli elettori che non avrebbero dovuto avere luogo e delle quali infatti non si sente quasi mai parlare in campo democratico, dove la sensibilità verso il problema del governo popolare del partito è nettamente maggiore.

Come detto, i democratici non ebbero modo di stringersi attorno al vincitore fino a giugno. Eppure questo non li penalizzò affatto. Anzi, alle elezioni generali Obama prevalse nettamente su McCain, aggiudicandosi 365 grandi elettori contro 173, vincendo in 28 stati più il Distretto di Columbia, contro i 22 stati di McCain, raccogliendo il 53% del voto popolare contro il 46%.

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