Le “dinastie” americane
Un’altra obiezione che si sente fare spesso è che il sistema americano favorirebbe la formazione di “dinastie” di politici. Si menzionano al proposito i Kennedy, i Clinton, e i Bush. Tuttavia, John F. Kennedy diventò presidente prima dell’epoca moderna, e gli altri politici che portarono il nome Kennedy dovettero accontentarsi di cariche minori, che, come abbiamo sottolineato più volte, non sono regolate dal sistema fatto di primarie sequenziali e convention intercorrelate tra loro. Ted Kennedy, per esempio, fu senatore del Massachusetts al Congresso per 47 anni di fila. Non sono previsti infatti numeri massimi di mandati per le cariche pubbliche, tranne la presidenza degli Stati Uniti, e dunque non è infrequente che un politico venga riconfermato, anche parecchie volte. Tuttavia, la riconferma se la deve guadagnare davvero, ripartendo dalle primarie, perché nessuno gli può garantire a priori di essere ricandidato. Costringere i candidati a ripartire ogni volta da zero, avvantaggiati della sola notorietà acquisita nel frattempo, vuol dire affermare che di fronte agli elettori non sono ammesse scorciatoie, che non esistono privilegiati o forme di privilegio, che il consenso raccolto in passato non può essere speso e fatto valere anche in futuro, ma deve essere verificato e riconfermato ogni volta. In questo modo si ricorda al candidato che lui è al servizio degli elettori, non il contrario. Ripartire da zero non è mai un passaggio inutile o dall’esito scontato, e saltarlo aprirebbe le porte al privilegio, porterebbe alla formazione di una casta autoreferenziale di persone che non rispondono più agli elettori. Inoltre, soltanto se gli elettori stanno costantemente col fiato sul collo del candidato e del rappresentante eletto, questi è costretto a prendere il suo compito sul serio, e a fare davvero la volontà popolare, invece degli interessi suoi.
Se il caso dei Kennedy è poco pertinente rispetto al presunto problema delle dinastie, più rilevanti sono i casi della famiglia Clinton e della famiglia Bush, perché vi sono coinvolti più candidati presidenti. Si ricordi però che Hillary Clinton alla fine non ottenne la nomina democratica, battuta da Obama. Ciò dimostra che il vantaggio di cui godeva per essere la moglie di un ex-presidente fu per l’appunto soltanto questo, peraltro alla fine nemmeno determinante: il vantaggio di saltare la fase più difficile, quella iniziale del debutto e dell’anonimato, e disporre dell’aiuto e dell’esperienza di chi sapeva già come districarsi nelle enormi difficoltà che un processo lungo come il processo di nomina presidenziale comportava. Il caso della famiglia Bush è invece unico, perché conta ad oggi due persone, padre e figlio, entrambe nominate dal Partito Repubblicano ed entrambe diventate presidente. Tuttavia, è difficile vedere una correlazione tra questo rapporto di parentela e, ad esempio, la manciata di voti che nel 2000 fece prevalere George W. Bush su Al Gore in Florida e gli consegnò, dopo una serie di contestazioni, la presidenza.
Per la verità, nessuno si prende la briga di sviluppare la presunta obiezione riguardante le dinastie americane in modo serio. Assai più frequentemente l’affermazione secondo cui il sistema americano favorirebbe la formazione di dinastie viene “buttata lì”, come fosse scontata, talmente evidente da non necessitare di dimostrazione, praticamente usata per strizzare l’occhio agli interlocutori, in cerca di qualche antiamericano che giunga in soccorso e la ribadisca, sempre senza argomentarla, sperando così di darle una forza che non ha. In conclusione, non è chiaro su quali dati i teorizzatori delle “dinastie americane” basino le loro bizzarre argomentazioni. Il sistema americano moderno ha di fatto portato al superamento di ogni forma di privilegio e gerarchia, sicuramente non ha portato alla formazione di dinastie.
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