1972: la riforma McGovern-Fraser
Messo sotto pressione dalle circostanze e dalle dimostrazioni di piazza, il Partito Democratico accettò dunque di elaborare una riforma complessiva del sistema di nomina dei candidati alla presidenza [32]. Il lavoro preliminare fu svolto dalla commissione per la struttura del partito e per la selezione dei delegati, più comunemente nota come “commissione McGovern-Fraser”. In un primo momento fu presieduta dallo stesso George McGovern, poi dal deputato del Minnesota Donald Fraser.
A dire il vero, la commissione McGovern-Fraser fu creata con un mandato abbastanza vago. Molti di coloro che ne approvarono l’istituzione non avevano idea di cosa stessero veramente votando. Tuttavia, sull’onda degli eventi del 1968, la commissione prese il suo lavoro molto sul serio e procedette speditamente, spesso concedendo molto alle fazioni radicali del partito, tanto che negli anni successivi furono necessarie delle “mini-controriforme”. Gli effetti delle riforme superarono di gran lunga l’immaginazione degli stessi riformatori.
Il primo compito della commissione fu studiare i problemi connessi col processo di selezione dei delegati. I risultati dell’indagine furono raccolti in un rapporto che fu sottomesso al comitato nazionale del partito. La commissione valutò varie proposte di soluzione e incluse le proprie raccomandazioni in merito. Il rapporto fu approvato dal comitato nazionale e quindi divenne parte integrante delle regole del Partito Democratico. Le nuove regole determinarono il processo di selezione dei delegati a partire dalle elezioni del 1972.
La commissione McGovern-Fraser svolse un’adeguata indagine su tutti gli aspetti del processo di nomina dei candidati, per come era stato utilizzato nel 1968. Come abbiamo ricordato, alcuni stati avevano usato le elezioni primarie, altri il sistema caucus-convention e in alcuni casi i delegati erano stati nominati dai comitati statali del partito o dai governatori. L’indagine mise in luce la quasi totale mancanza di trasparenza e una serie impressionante di abusi e disincentivi alla libera partecipazione. La commissione scoprì che molte fasi del processo di nomina non erano regolate da alcuna norma scritta e che i funzionari del partito non comunicavano agli elettori né tempestivamente, né adeguatamente, le regole, le date e i luoghi delle assemblee locali. Costi e quote di iscrizione eccessivi impedivano a molti elettori di candidarsi per i posti di delegato. Molte categorie sociali erano sottorappresentate alla convention, perché le procedure relativamente chiuse non consentivano una partecipazione adeguata degli elettori della base, dei democratici provenienti dalle zone rurali del paese, delle minoranze etniche, delle donne e di altre minoranze. Spesso la selezione dei candidati si concludeva con eccessivo anticipo, in alcuni casi prima dell’anno della convention, quando non erano ancora scesi in campo i candidati forti e non erano ancora emersi i temi di dibattito che avrebbero focalizzato l’attenzione della campagna elettorale e i lavori della stessa convention. Quasi sempre i comitati di partito incaricati di selezionare i delegati erano scelti con criteri che non garantivano la corretta rappresentanza degli elettori democratici nel territorio di competenza. Quei comitati spesso deliberavano senza un quorum ragionevole di partecipanti. In molti casi il partito a livello locale era dominato da una serie di boss ed élite interne. Norme di difficile applicazione tendevano a vincolare i delegati a votare per candidati alla nomina che non li rappresentavano.
La commissione di riforma stabilì le nuove regole nazionali del processo di selezione dei delegati. In ciascuno stato e territorio il Partito Democratico locale era tenuto ad applicarle nel momento in cui, a sua volta, stabiliva le regole per la selezione della propria delegazione alla convention nazionale, organizzava le consultazioni popolari, i raduni, le convention. I principi fondamentali stabiliti dalla commissione McGovern-Fraser, preservati dalle riforme successive, furono due:
i) Principio di piena partecipazione: il processo di nomina dei candidati deve essere aperto a tutti gli elettori democratici.
ii) Principio di corretta rappresentanza: le preferenze degli elettori per i candidati alla nomina devono essere rispecchiate in maniera corretta.
Analizziamo le riforme introdotte nel 1972 una per una.
1) Partecipazione. I riformatori erano convinti che il processo di selezione dei delegati usato fino al 1968 non avesse garantito il rispetto dei due principi appena riportati, anzi, che in alcuni casi li avesse violati palesemente. Le riforme del 1972 tradussero il primo principio nell’obbligo di aprire il processo di nomina alla partecipazione di tutti gli elettori che si consideravano democratici. Questa formulazione consentì l’uso delle primarie aperte, cioè le primarie in cui gli elettori potevano votare senza essere registrati come democratici, e senza essere costretti a controfirmare una dichiarazione di sostegno al Partito Democratico, né prima di recarsi a votare, né al momento del voto. Fu stabilito anche che agli elettori che partecipavano al processo di nomina, a qualsiasi livello (primarie, caucus, convention, caucus pre-o post-primarie, ecc.), non poteva essere richiesto il pagamento di alcuna somma di denaro, né in forma diretta, né in forma indiretta.
2) Corretta rappresentanza. La commissione attuò il secondo principio creando i “delegati giurati” (pledged delegates):
a. ogni candidato delegato doveva promettere solennemente e formalmente di sostenere un candidato alla nomina, oppure dichiararsi non-impegnato;
b. il numero di delegati giurati che spettavano a ciascun candidato alla nomina era calcolato col metodo proporzionale, in base al consenso raccolto dal candidato.
3) Candidature. Poteva candidarsi alla nomina chiunque fosse un “democratico dichiarato” di comprovata dedizione agli interessi e al successo del Partito Democratico. Potevano candidarsi ai posti di delegato gli elettori registrati come democratici nel territorio di competenza (distretto, stato) che presentavano una domanda di candidatura e una dichiarazione controfirmata contenente la promessa solenne di sostegno (pledge of support) ad un candidato alla nomina di loro scelta, oppure una dichiarazione controfirmata di non-impegno. In alcuni casi era richiesta anche la presentazione di un certo numero di firme a sostegno della candidatura a delegato, dell’ordine di poche centinaia, e il pagamento di un contributo di poche decine di dollari, abbuonato a chi non poteva permetterselo.
4) Diritti dei candidati alla nomina. Il candidato alla nomina aveva un limitato diritto di veto sui candidati delegati giurati che desideravano impegnarsi in suo sostegno: non era tenuto ad approvarli tutti, ma non poteva nemmeno respingerli a sua discrezione. Doveva sempre approvarne un numero superiore ad una certa soglia, maggiore o uguale al numero massimo di delegati eleggibili nell’unità territoriale di competenza.
5) I delegati non-impegnati. Le regole consentivano, a discrezione degli stati, l’elezione di delegati “non-impegnati” (uncommitted). Si trattava di delegati che non avevano ancora deciso quale candidato alla nomina sostenere o che non si riconoscevano in alcun candidato ufficiale. In quei casi il candidato delegato poteva sostituire la promessa solenne di sostegno con una “dichiarazione di non-impegno”. I candidati delegati non-impegnati erano trattati a tutti gli effetti come candidati delegati impegnati a sostenere un candidato alla nomina fittizio aggiuntivo, e pertanto inclusi nel punto a menzionato sopra. Gli elettori potevano votare la lista di delegati non-impegnati esattamente come qualunque lista di delegati impegnati ai candidati alla nomina.
6) Delegati di distretto e delegati “at large”. La riforma stabilì che la delegazione di uno stato fosse composta per i tre quarti da delegati di distretto e per il rimanente quarto da delegati “at large”. I delegati di distretto erano selezionati, mediante primarie o caucus-convention, contando i voti a livello distrettuale o a livello più basso di quello distrettuale. I delegati “at large” erano selezionati sommando i voti di tutto lo stato. I termini di scadenza per la presentazione delle candidature a posti di delegato di distretto erano anteriori alle primarie o ai caucus locali, mentre i termini di scadenza per la presentazione delle candidature a posti di delegato “at large” erano posteriori alle primarie o ai caucus locali, spesso prossimi alla convention nazionale. Infatti, i delegati “at large” erano selezionati per ultimi.
7) Preferenza per il candidato alla nomina. Le modalità con cui gli elettori esprimevano la preferenza per il candidato alla nomina variavano da stato a stato: si andava dal voto segreto, usato nelle elezioni primarie, al voto palese tipico dei caucus locali, dove spesso gli elettori si radunavano dietro i sostenitori del candidato preferito e si facevano contare.
8) Attribuzione dei delegati ai candidati alla nomina. La commissione stabilì in maniera abbastanza precisa come doveva essere calcolato il numero dei delegati vinti da ciascun candidato alla nomina. Per garantire la corretta rappresentanza optò per la regola proporzionale, cioè decise che ad ogni candidato alla nomina spettasse un numero di delegati giurati a lui impegnati proporzionale al consenso raccolto. Analogamente, il numero di delegati non-impegnati eletti era proporzionale al numero di voti raccolti dalla lista dei candidati delegati non-impegnati, cioè dal candidato fittizio introdotto apposta per questo scopo. Tuttavia, la formulazione della regola proporzionale del 1972 era ancora imperfetta e consentì, in quella tornata elettorale e in alcune successive, alcune importanti eccezioni.
Per esempio, le regole del 1972 permettevano l’elezione diretta dei delegati abbinati ai candidati alla nomina. Questo sistema era già stato impiegato nel primo periodo di primarie presidenziali, tra il 1912 e il 1924. Si trattava del sistema d, usato per esempio in California nel 1924, illustrato nella Tabella I, una modalità di elezione in cui l’elettore non votava direttamente per il candidato alla nomina, ma solo per i delegati, nominalmente. Le schede elettorali riportavano il nome di ciascun candidato delegato, affiancato dal nome del candidato alla nomina a cui si era impegnato, o incolonnato sotto a quello. Erano eletti i delegati che ottenevano più preferenze. I riformatori non si accorsero che questo sistema consente di raggirare la regola proporzionale, come ora mostriamo. Infatti, nonostante gli elettori possano distribuire le loro preferenze trasversalmente, ci si aspetta che nella maggior parte dei casi votino tutti e soli i delegati impegnati a sostenere il candidato alla nomina CN che preferiscono. Spesso possono farlo barrando un’unica casella (vedi tabella I). Se così fanno e CN ottiene la maggioranza relativa dei consensi, molto probabilmente ciascun candidato delegato impegnato a CN pure ottiene la maggioranza relativa dei consensi, e viene eletto. In questo modo, un unico candidato alla nomina può vincere tutti i delegati, oppure vincerne una frazione di gran lunga superiore alla frazione di consenso da lui raccolto. La carenza non fu apprezzata nella prima fase riformatrice. Vi avrebbero posto rimedio gli aggiustamenti successivi.
Nel tipo di primarie che abbiamo descritto, accanto all’elezione diretta dei delegati, poteva essere tenuta, separatamente, una “beauty contest” vecchio stile, cioè un voto indicativo mediante il quale l’elettore poteva esprimere la sua preferenza per il candidato alla nomina. Si vedano in proposito i sistemi c1 e c2 della prima fase di primarie presidenziali. Tuttavia, i risultati della “beauty contest” non avevano alcun valore per l’attribuzione del numero di delegati che spettavano ai candidati alla nomina. Anche questo retaggio del passato sopravvisse alla prima fase di riforme, ma fu eliminato dagli aggiustamenti successivi.
9) Determinazione dei nominativi dei delegati eletti. Fissato il numero dei delegati che spettavano a ciascun candidato alla nomina (compreso il numero di delegati non-impegnati), calcolato col metodo proporzionale, rimanevano da selezionare i nominativi dei delegati eletti. La commissione McGovern-Fraser non stabilì regole precise per questo tipo di selezione, per cui ogni stato si regolò come ritenne opportuno, adottando anche modalità diverse per i delegati di distretto e i delegati statali. Vediamole una per una, cominciando dai delegati di distretto.
Il sistema menzionato sopra di primarie con elezione diretta dei delegati abbinati ai candidati alla nomina, adottato in alcuni stati, stabiliva automaticamente sia il numero che i nomi dei delegati eletti impegnati a ciascun candidato, ma, come detto, raggirava la regola proporzionale. In altri stati con primarie i delegati alla convention nazionale impegnati a CN erano eletti indirettamente, in raduni o convention precedenti o successivi alle primarie. Vi partecipavano soltanto i sostenitori di CN (cioè persone che firmavano una dichiarazione di sostegno a CN), e potevano votare soltanto per persone che avessero presentato un’apposita domanda con dichiarazione solenne di sostegno a CN, e fossero state approvate da CN. Infine, negli stati che usavano il sistema caucus-convention, contando le preferenze raccolte dai candidati alla nomina si stabiliva il numero di delegati che spettavano a ciascuno di loro. Poi, i sostenitori di CN si appartavano per eleggere i delegati alla convention di contea impegnati a CN. Questi, successivamente, si riunivano per eleggere i delegati alle convention di distretto e statale impegnati a CN, i quali eleggevano i delegati alla convention nazionale impegnati a CN.
Per quanto riguarda i delegati “at large”, i nominativi dei delegati giurati impegnati al candidato alla nomina CN erano scelti (sempre tra coloro che avevano firmato la promessa solenne di sostegno a CN ed erano stati approvati da CN) con due modalità tipiche: i) dal comitato statale del partito, a maggioranza assoluta; ii) dai delegati alla convention statale che sostenevano CN, riuniti in un caucus.
10) Pubblicità e trasparenza. Le riforme stabilirono anche che in ogni stato il Partito Democratico locale era tenuto ad elaborare un proprio piano di selezione dei delegati con modalità che garantissero agli elettori della base e ai democratici delle aree rurali ampie opportunità di partecipare e contribuire. Il piano doveva essere messo per iscritto, pubblicizzato e reso facilmente accessibile agli elettori della base del partito. Tutte le assemblee e gli eventi legati alla selezione dei delegati dovevano essere svolti in luoghi pubblici facilmente accessibili, in momenti convenienti, contemporaneamente in tutto lo stato, dovevano essere ben pubblicizzati e le loro finalità dovevano essere comunicate in maniera chiara.
11) Vincoli temporali. Furono introdotti vincoli temporali per arginare la pratica diffusa che consisteva nella designazione dei delegati con eccessivo anticipo, anche un anno o più prima della convention, prima che i nomi dei candidati alla presidenza fossero noti. Ciò aveva reso di fatto impossibile impegnare i delegati ai candidati alla nomina. Le riforme stabilirono che l’intero processo di nomina dei delegati doveva svolgersi nello stesso anno solare in cui si svolgeva la convention. La regola fu mantenuta nel 1976, mentre nelle tornate elettorali successive fu introdotta una finestra temporale più ristretta.
12) Rappresentanza delle minoranze. Nel 1972 fu introdotto anche un sistema di quote per garantire la rappresentanza di minoranze e gruppi etnici. Le delegazioni che non erano composte secondo il sistema di quote potevano essere contestate alla convention. Le quote furono abolite nel 1976 e mai più riprese da allora, sostituite dall’obbligo di adottare misure per prevenire qualsiasi forma di discriminazione.
A partire dal 1972 anche i democratici adottarono una formula che premiava adeguatamente gli stati in cui il partito era più forte. A ciascuno stato, più il Distretto di Columbia, fu assegnato un numero di delegati che teneva conto all’incirca in egual misura del numero di grandi elettori e del consenso raccolto dal partito in alcune elezioni presidenziali precedenti. Furono assegnati dei delegati anche ai territori.
L’adozione delle primarie non fu imposta, e nemmeno sollecitata, dalla commissione McGovern-Fraser, che si proponeva soltanto di garantire trasparenza e rispetto della volontà popolare. Più che regole rigide e restrittive, la commissione introdusse principi generali, che in un altro contesto avrebbero potuto anche avere poco effetto. Essi si inserirono però in un meccanismo che di fatto ne amplificò notevolmente la portata. Sappiamo infatti che le delegazioni statali potevano essere contestate. Fazioni avversarie del partito potevano inviare delegazioni diverse dallo stesso stato. Durante i lavori della convention, gruppi di delegati potevano contestare le delegazioni degli stati che non avevano rispettato le regole. Un apposito comitato della convention, il comitato per le credenziali, era incaricato di redigere un rapporto preliminare sulla composizione delle delegazioni. Quel rapporto era trasmesso alla convention per essere discusso, eventualmente emendato, e votato. In generale, almeno una giornata dei lavori della convention era dedicata ad esaminare le contestazioni.
I principi della riforma McGovern-Fraser, inseriti in un meccanismo come questo, ebbero effetti di portata imprevista. Era ancora vivo il ricordo delle numerose contestazioni sulle credenziali che avevano surriscaldato la convention del 1968. Per questo motivo, molti stati decisero di adottare delle precauzioni per mettersi al riparo da ogni contestazione. Apparve subito chiaro che la maniera più semplice per applicare tutte le regole era quella di tenere le primarie dirette e usare il metodo proporzionale per il calcolo del numero dei delegati spettanti ai candidati alla nomina. Molti stati fecero questa scelta e approvarono legislazioni apposite in materia. Nel 1969 il Maryland approvò una legge sulle primarie per la terza volta nella sua storia. Tre il 1969 e il 1971 altri sei stati approvarono leggi sulle primarie. Il numero di primarie democratiche passò dalle 15 del 1968 alle 24 del 1972. Quasi due terzi dei delegati alla convention nazionale del 1972 furono scelti colle primarie, dove si recarono a votare quasi sedici milioni di elettori, più del doppio di quattro anni prima [33].
Come prevedibile, nella convention democratica del 1972 il numero di contestazioni reciproche esplose. Esse coinvolsero più del 40% dei delegati alla convention. Erano basate sulla verifica della corretta applicazione delle nuove regole. L’effetto fu che molti altri stati si convinsero a passare alle primarie, come precauzione per evitare altre contestazioni in futuro. Il numero di stati con primarie democratiche balzò a 30 nel 1976 e a 34 nel 1980.
Man mano che le riforme furno tradotte in legislazioni statali, esse investirono automaticamente anche il Partito Repubblicano, che subì un’evoluzione simile e quasi contemporanea a quella del Partito Democratico. Infatti, il numero di stati che tennero primarie repubblicane passò da 15 nel 1968 a 23 nel 1972, a 30 nel 1976 e a 34 nel 1980. Stato per stato, il Partito Repubblicano si adattò spontaneamente alle nuove regole senza mai stabilirne di proprie. Questo gli permise di preservare al suo interno una varietà di regole e modalità molto maggiore di quella che sopravvisse all’interno del Partito Democratico.
La riforma fu il tentativo, riuscito, di chiudere decenni di relativa anarchia e contestazioni interne, e regolamentare la convention e il processo di nomina dei candidati alla presidenza. Il sistema di regole allestito dalla commissione McGovern-Fraser aprì il processo di designazione dei delegati alla base del partito, lo rese trasparente e rappresentativo della volontà popolare e vincolò i partiti di 50 stati diversi ad attenersi alle nuove condizioni. Di fatto, marginalizzò i politici più potenti, impedendo loro di esercitare influenza sulla designazione dei delegati e sulle decisioni che i delegati prendevano alla convention. I boss del partito non avevano più strumenti con cui esercitare il potere di cui avevano goduto fino ad allora. I delegati non erano più sotto ricatto. Essi dovevano il loro insediamento unicamente agli elettori, non più ai capi-partito. Inoltre, nessuna ristretta cerchia di persone poteva prendere decisioni al posto degli elettori, e usare questo privilegio per ricompensare favori con posti di rilievo. I delegati, finalmente liberi da influenze e condizionamenti, non avevano motivo per ascoltare eventuali direttive provenienti dagli ormai ex-boss del partito, prestarsi a giochi di potere, o accordi.
Il risultato delle riforme è considerato da alcuni studiosi il più grande e sistematico cambiamento nelle procedure di nomina dei candidati alla presidenza di tutta la storia americana.
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