Perché due partiti aperti e non tre o più

Se i partiti sono aperti e dinamici, non caratterizzati aprioristicamente, se chiunque può candidarsi e chiunque può andare a votare e a governare il partito, non ha nessun senso farne più di due. Tuttavia, ci si può chiedere se non ci sia il rischio che se ne formino ugualmente di più, e cosa succederebbe in quel caso. In realtà i partiti aperti potrebbero essere anche più numerosi, e probabilmente all’inizio sarà così, ma anche quella situazione sarebbe instabile. Siccome sono aperti, quindi privi di barriere o delimitazioni, col passar del tempo i partiti aperti collasseranno necessariamente in due soli, oppure la competizione ne premierà soltanto due, marginalizzando gli altri.

Infatti, l’unica sorgente di demarcazione netta e stabile tra i partiti aperti è quella menzionata sopra, dovuta alla presenza di elezioni generali successive. Se sopravvivesse qualunque altro tipo di demarcazione tra partiti aperti, è chiaro che quei partiti non potrebbero essere tutti veramente aperti. Si tratterebbe di qualche distinzione artificiale pensata per impedire loro di collassare in due soltanto. Alcuni partiti saranno in realtà più o meno chiusi, dunque perderanno nella competizione contro quelli veramente aperti e spariranno progressivamente.

Se un candidato non è soddisfatto delle opportunità offertegli dai due partiti aperti governati dagli elettori e si rivolge ad altri, o si propone di fondare un nuovo partito, sostanzialmente si sta ponendo in uno dei seguenti modi: i) non si candida in un partito aperto, perché teme la competizione trasparente di fronte ai loro elettori; oppure ii) si è già candidato con un partito aperto, ma non gli è andata bene, quindi cerca un’opportunità di rivincita; oppure iii) è contrario ai partiti aperti e vuole creare un partito chiuso. Nel caso ii) non ha alcuna concreta speranza di soddisfare la sua sete di rivincita, perché conosce già la reazione degli elettori alla sua candidatura e alle sue proposte. Se crea un nuovo partito, questo sarà necessariamente un partito chiuso e raccoglierà un consenso marginale. Nel caso i) non conosce già la reazione degli elettori, ma il fatto che non si sia voluto candidare avendo avuto la più completa libertà di farlo, e di farlo con le sue idee e proposte senza scendere a compromessi con quelle preesistenti, non ha alcuna motivazione plausibile che non sia riconducibile alla vanità del candidato. Il suo nuovo partito sarà quindi un partito personalistico, cioè un altro partito chiuso. La creazione del nuovo partito priva di vera motivazione sarà probabilmente penalizzata dagli elettori. Se ciò non accadesse, quel partito potrà avere temporaneamente qualche spazio, ma si tratterebbe pur sempre dello spazio marginale a cui è relegato un partito chiuso in competizione con partiti aperti.

Diverso sarebbe il caso in cui uno dei due partiti aperti im-boccasse una strada involutiva e tendesse a chiudersi. Allora la creazione di nuovi partiti aperti avrebbe certamente possibilità di successo, perché i nuovi partiti aperti prevarrebbero nella competizione con quelli vecchi, ormai diventati chiusi o semichiusi, e li sostituirebbero progressivamente. La presenza di un folto gruppo di mini-partiti più o meno chiusi accanto ai due partiti maggiori aperti è da giudicare positivamente, perché contribuisce a scongiurare l’involuzione dei partiti aperti, e nel caso una tale involuzione prenda il sopravvento, accelera l’emergere di un nuovo partito aperto che rimpiazzi quello che si sta chiudendo.

Questi sono gli scenari che descrivono l’evoluzione del sistema partitico nel medio e lungo termine. Tuttavia, spesso in politica occorre preoccuparsi più di quello che può succedere nel breve e brevissimo termine. Per esempio, ci si può chiedere se i partiti aperti siano soggetti al rischio di spaccature nel periodo che intercorre tra le primarie e le elezioni generali, qualora i candidati perdenti volessero uscire per fondare partiti propri, necessariamente chiusi. Dobbiamo chiederci quale incidenza queste eventuali iniziative possano avere nell’immediato, posto che nel medio e lungo termine succede quanto menzionato sopra.

Negli Stati Uniti situazioni che potrebbero portare ad epiloghi come questo si verificano spesso. Vale dunque la pena analizzare alcuni casi recenti. Per esempio, sia nel 2008 che nel 2012 un candidato libertario, Ron Paul, rappresentante al Congresso eletto in un distretto del Texas, si presentò alle primarie presidenziali repubblicane. Ron Paul era un candidato inusuale, sostenuto da militanti giovani, motivati, fedeli e molto attivi su internet. Durante la stagione delle primarie i giornalisti chiedevano spesso a Paul se avesse intenzione di correre per la presidenza alla guida di un “terzo partito”, in caso non avesse ottenuto la nomina repubblicana. Paul negò sempre di avere quel tipo di intenzione, ma non escluse mai in maniera assoluta quell’eventualità. Gli fu ripetutamente chiesto se avrebbe appoggiato il candidato nominato dal Partito Repubblicano, chiunque egli fosse, e rispose condizionando il suo eventuale appoggio all’accettazione dei punti-chiave del suo programma libertario. Alla fine, nel 2008, Paul non creò un partito proprio, ma nemmeno appoggiò il candidato nominato allora dal Partito Repubblicano, John McCain. Scelse invece di appoggiare i candidati di alcuni terzi partiti, quali il Partito Libertario, il Partito della Costituzione e il Partito Verde, oltre che il candidato indipendente Ralph Nader. Alla fine restrinse la rosa al solo candidato del Partito della Costituzione. Il tutto senza mai uscire dal Partito Repubblicano. Paul infatti è rappresentante repubblicano al Congresso dal 1997 ed è considerato membro del partito repubblicano dal 1976, con la sola interruzione del 1988, quando corse per la presidenza sotto le insegne del Partito Libertario.

Da questi fatti possiamo desumere che l’apertura dei partiti americani è tale che nemmeno chi si rifiuta di appoggiare il candidato nominato dal Partito Repubblicano perde il suo diritto di chiamarsi “repubblicano”, anzi considerarsi un repubblicano più autentico di tutti gli altri, come Paul si considera da sempre, né perde il diritto di candidarsi ed essere eletto quale, per esempio rappresentante al Congresso di quel partito, né perde il diritto di ricandidarsi alla nomina repubblicana nella tornata elettorale successiva. Non è nemmeno concepibile, negli Stati Uniti, l’idea di “espellere” qualcuno dal partito, sia perché non esiste un’autorità che possa prendere decisioni simili, sia perché una tale eventualità non ha il minimo senso in un partito aperto. Per contro, nel lontano passato anche negli Stati Uniti vi furono espulsioni dai partiti (si ricordi che nella metà del 1800 il partito Whig espulse il presidente John Tyler), così come eventualità simili possono accadere ed effettivamente accadono ancora oggi nei nostri partiti chiusi.

La possibilità che un candidato perdente lasci il partito per crearne uno proprio col solo scopo di sottrarre una manciata di voti al partito di provenienza esiste, ma non desta particolare preoccupazione, per una serie di motivi. Occorre tenere presente che accanto ai due partiti aperti maggiori, che si divideranno la quasi totalità dell’elettorato, saranno sempre presenti tanti partiti minori, più o meno chiusi. Tipicamente quei partiti possono arrivare a raccogliere il due o tre per cento dei voti in totale, alle volte anche di più. Che i loro candidati provengano o meno dai partiti maggiori fa poca differenza. La sola presenza, comunque inevitabile, di questi partiti potrebbe essere considerata “di disturbo”. In realtà, siccome quei partiti sono numerosi, in generale gli effetti della loro presenza, comunque imprevedibili, si mediano complessivamente a zero. Ciò vuol dire che disturbano in maniera più o meno equamente distribuita entrambi i partiti maggiori. Per esempio, nel 2000 Ralph Nader si candidò alle presidenziali americane con il Partito Verde. Alcuni sistengono che così facendo portò via voti al democratico Al Gore e favorì la vittoria del repubblicano George W. Bush. Si dice che la presenza di Nader fu cruciale soprattutto per determinare l’esito delle contestate elezioni in Florida. Si tratta, tuttavia, di discorsi fatti col senno di poi, perché non era prevedibile che Nader raccogliesse un “ottimo” 2,7% a livello nazionale in quella tornata elettorale, tanto che quattro anni dopo si ricandidò, ma allora i candidati di tutti i terzi partiti raccolsero meno dell’un per cento in totale. E ancora: è impossibile quantificare il presunto “danno” provocato nel 2008 al Partito Democratico dalla ricandidatura di Ralph Nader, stavolta con un partito indipendente, in rapporto al presunto “danno” provocato al Partito Repubblicano dal rifiuto di Ron Paul di appoggiare John McCain. Infine, come già sottolineato, la presenza o creazione di altri partiti, e questo tipo di movimenti di entrata e uscita da e per i partiti maggiori, non possono in alcun modo essere considerati elementi “di disturbo”, nello spirito del sistema dei partiti governati dagli elettori, perché anzi contribuiscono a scongiurare il rischio che i partiti aperti si incamminino lungo un percorso involutivo che li porti a chiudersi. Impedire scelte come quelle di Ron Paul, per esempio, porterebbe presto il Partito Repubblicano alla chiusura.

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