Unità, coesione, disciplina di partito

Chi si interessa del funzionamento dei partiti americani per la prima volta si può chiedere come possano restare uniti partiti senza struttura e senza catena di comando, per giunta frazionati in tanti partiti statali autonomi, e come mai quel sistema non porti velocemente verso la frantumazione in tante piccole formazioni distinte.

La convinzione che una solida struttura, una gerarchia, un apparato e una catena di comando siano necessari, o anche semplicemente utili, affinché un partito scongiuri il rischio della frammentazione non è basata sull’esperienza. Più probabilmente, è un semplice frutto di mancanza di rigore ed inerzia intellettuale. I partiti italiani, che hanno appunto strutture e catene di comando completamente assenti nei partiti americani (basti pensare alla figura del “segretario” del partito, ai vari coordinatori, alla “direzione nazionale” e agli “organi dirigenti”), sono perennemente soggetti al rischio di secessione. Un partito che si struttura diventa soltanto apparentemente più solido e robusto. La struttura porta alla chiusura, riduce il coinvolgimento degli elettori, e per forza di cose anche il consenso raccolto. In breve tempo quella struttura si trasforma in apparato. Essa viene inevitabilmente usata da coloro che occupano posizioni di rilievo come forma di protezione contro tutti coloro che minacciano le loro posizioni. è anche il terreno fertile in cui crescono le pulsioni che portano alla frammentazione. Gli apparati prendono decisioni senza consultare gli elettori, o consultandoli in maniera non determinante, o avendoli consultati tempo prima su questioni diverse, come la scelta dei “capi”, cioè dei componenti gli apparati stessi. In molti partiti prevale l’idea che gli elettori debbano essere chiamati non a prendere decisioni, ma, appunto, a scegliere i propri capi, che poi prenderanno decisioni per loro. Di fatto, gli elettori non sono messi in grado di determinare le decisioni del partito. Qualora volessero governare veramente il partito, infatti, dovrebbero essere così preveggenti da scegliere il “capo” con grande anticipo, sulla base delle decisioni che prenderà nei mesi successivi alla sua investitura, tra cui appunto la “linea politica”. In un sistema come questo si procede per ideologie ed associazioni tra individui e ideologie, più che per decisioni dirette degli elettori sulle azioni da intraprendere. Non sorprende che molte decisioni prese dagli organi dirigenti accontentino una piccola frazione degli esponenti del partito e scontentino tutti gli altri. Esse si prestano dunque a contestazioni e recriminazioni continue, peraltro fondate. Gli scontenti lasciano il partito per fondarne uno nuovo, oppure restano nel partito meditando vendetta, cui danno seguito alla prima occasione utile. Inizia così quella spirale perversa che trasforma i partiti chiusi in campi di battaglia tra capi, capetti e sudditi, gli uni pronti a pugnalare gli altri alle spalle appena possono, anche perché se non lo fanno rischiano di essere pugnalati a loro volta in men che non si dica. Per questo motivo nei partiti chiusi la maggior parte del tempo e dello sforzo non vengono impiegati per “fare politica”, cioè per rappresentare gli interessi dei cittadini, ma per accoltellarsi a vicenda. Anzi, si scambiano queste pratiche per la “politica” e gli interessi dei cittadini spariscono inevitabilmente.

Non essendoci regole chiare e trasparenti per la selezione dei candidati e di coloro che occupano posti di rilievo nel partito (posti di rilievo che non esistono in un partito americano, è bene ricordarlo), rimane soltanto la lotta continua e fratricida tra coloro che fanno parte dell’apparato, chi per avanzare di una posizione, chi per non retrocedere, chi per piazzare l’amico fedele in una posizione attigua alla sua, in modo che poi lo possa aiutare a farsi largo per raggiungere una posizione più alta. Questa è la cronaca dell’ordinario funzionamento dei partiti dotati di apparato. Soltanto chi non si è mai avvicinato ad un partito può dubitare che sia così. Si può facilmente immaginare che i partiti chiusi non possono che reclutare quei particolari tipi umani fatti di individui disposti a sottoporsi a questo umiliante e lento processo, e passare quasi tutto il tempo a sottostare ad altri e ubbidire, nella vana speranza di avere un giorno accesso a un misero posto di rilievo. Si tratta di un vero e proprio sistema di selezione, che premia una certa tipologia di persone rispetto a qualunque altra. Non dobbiamo sorprenderci se la qualità delle persone premiate da questa selezione sia così bassa. Chi non si adegua può soltanto fondare il suo partito, dalla vita più o meno breve, colla conseguenza che uno dei sistemici partitici più frammentari è appunto il nostro.

Fatto il punto sulla situazione dei partiti italiani, ci rimane ancora da rispondere esaurientemente alla domanda che ci siamo posti all’inizio: come fanno i partiti americani, senza struttura e senza apparato, a rimanere uniti? La risposta è in realtà molto semplice, ed è solo la nostra chiusura mentale a nascondercela. La coesione dei partiti americani non è da intendere nel senso in cui la intendiamo noi, cioè come l’obbedire agli ordini di un capo, o segretario, o coordinatore, l’adeguarsi alla linea politica decisa “dal partito”, che poi in Italia vuol dire le poche persone che stanno “a capo” del partito, gli “organi dirigenti”, non certo gli elettori del partito. è da intendere più semplicemente come necessità di attenersi alla volontà popolare. Esiste un rapporto diretto tra rappresentanti eletti ed elettori, gli eletti non hanno alcuna garanzia di ricandidatura, ogni volta viene azzerato tutto il processo e occorre ripartire da capo ripresentandosi davanti agli elettori delle primarie. Inoltre, quelle primarie non sono formalità, ma primarie combattute quanto piace agli avversari, i quali sono pronti a sfruttare ogni mancanza riescano a trovare nel comportamento tenuto dal rappresentante eletto durante il suo mandato, per provare a scalzarlo dal suo posto. In questo modo si crea una meritocrazia di fatto per cui invece che seguire un capo, al rappresentante in carica conviene seguire gli elettori. Anzi, alle volte gli conveniente precederli, per giungere favorito alla tornata successiva di primarie.

è la volontà popolare l’unico elemento di coesione che tiene uniti i partiti americani, e la volontà popolare non è certo terreno fertile per la crescita delle pulsioni che portano alla frammentazione. Le decisioni degli elettori non danno adito a recriminazioni e contestazioni. Sarebbe imbarazzante, per un politico, contestare un verdetto popolare e poi ripresentarsi davanti agli elettori per chiedere loro il voto. Inoltre, le eventuali divisioni che, su vari temi, sono comunque presenti all’interno del corpo elettorale non vengono coperte nel nome di una presunta disciplina di partito, ma riprodotte fedelmente dai rappresentanti eletti, i quali altrimenti verrebbero meno ad un loro compito preciso nei confronti dei “loro” elettori e rischierebbero di essere puniti da loro nella tornata elettorale successiva. Allo stesso modo, spesso nel corpo elettorale può esserci coesione tra gruppi che fanno riferimento a partiti diversi, ragion per cui può capitare che si formino temporanee maggioranze trasversali, su temi e provvedimenti precisi, senza che questo desti alcuno scandalo. Al Congresso, per esempio, i rappresentanti e senatori del partito che detiene la presidenza non si sentono obbligati a sostenere i provvedimenti graditi al presidente in carica, o proposti da lui, così come i rappresentanti e senatori del partito di opposizione non si sentono obbligati a schierarsi aprioristicamente contro le proposte fatte dalla maggioranza. In Italia, secondo la Costituzione, deputati e senatori non hanno vincolo di mandato, quindi non sono tenuti a seguire le disposizioni del partito a cui appartengono, ma poiché la loro ricandidatura dipende dal partito, non dagli elettori, di fatto sono costretti, nella quasi totalità dei casi, a conformarsi alla disciplina di partito. Altrimenti, se non abbandonano il partito di propria iniziativa, possono essere espulsi, o non ricandidati, o ricandidati in collegi non sicuri, o, con la legge elettorale attuale, penalizzati mettendoli in posizioni di lista più basse. In definitiva, le armi di ricatto a disposizione degli apparati sono innumerevoli, ragion per cui si assiste spesso a comportamenti “schizofrenici”, come quando i partiti di opposizione si oppongono agli stessi provvedimenti che sponsorizzavano quando stavano al governo, e viceversa. Il tutto perché, di fatto, la bussola che orienta i comportamenti della stragrande maggioranza dei deputati e dei senatori non è la volontà dei loro elettori, ma la disciplina di partito. Il risultato è che i partiti americani moderni, privi di struttura e disciplina partitica, sono di fatto i più ordinati e stabili, mentre i partiti italiani, quelli in linea di principio costruiti sulla fedeltà e sulla disciplina, sono di fatto i più riottosi ed instabili.

Di solito molte persone tendono a derubricare questi problemi a questioni culturali, per esempio tirando in ballo la famosa diversità tra “noi” e “loro”. C’è anche chi risale fino alla Riforma e alla Controriforma, per vaneggiare di presunte differenze antropologiche tra un popolo di egoisiti ed approfittatori, che saremmo noi, e un popolo di persone dotate di “senso morale”, che sarebbero gli americani. Come abbiamo già avuto modo di sottolineare, si tratta di argomenti che non meriterebbero alcuna considerazione, se non fossero fin troppo diffusi. Egoismo e individualismo sono presenti in tutti i popoli e in tutte le epoche storiche, in pressoché ugual misura. L’unica differenza tra “noi” e “loro” di cui dobbiamo parlare è quella tra un insieme di regole e procedure che premia i furbi e un insieme di regole e procedure che invece costringe gli interessi egoistici individuali a sintonizzarsi con quelli della collettività.

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