Le riforme costrinsero i partiti a ridurre la propria organizzazione interna a livelli minimali. Oggi non è possibile riconoscere un vero e proprio “establishment” all’interno dei partiti. Si possono però distinguere i candidati-outsider dai “candidati di partito”, i politici di professione. Le primarie chiuse e i caucus chiusi, dove la partecipazione è ristretta ai soli elettori registrati al partito, favoriscono chiaramente i candidati di partito. Un cittadino può sempre cambiare la propria registrazione per tempo, alle volte anche al momento del voto. Tuttavia, la maggioranza dei votanti nelle consultazioni chiuse è fatta di elettori inclini a preferire i candidati di partito. I loro avversari, gli outsider, devono dunque superare un ostacolo in più. Nell’era delle primarie moderne, su 13 nomine combattute, 6 furono vinte da un candidato diverso da quello preferito dal partito, o da un outsider: per i democratici McGovern contro Muskie nel 1972, Carter contro tutti nel 1976, Dukakis nel 1988, Clinton nel 1992 e Kerry contro Dean nel 2004. Presso i repubblicani questo successe una sola volta, nel 1980, quando Reagan prevalse su Bush. Anche se la casistica non è sufficiente a trarre conclusioni definitive, l’impressione è che in generale le nomine democratiche siano più aperte e combattute di quelle repubblicane. D’altra parte, oggi il Partito Repubblicano dà segnali di maggiore apertura del Partito Democratico. Per esempio, le primarie aperte, guardate ancora con diffidenza dai democratici, sono viste con maggiore favore dai repubblicani. Nel complesso, entrambi i partiti diedero contributi fondamentali all’evoluzione del processo di nomina verso la sua forma moderna, i repubblicani all’inizio del ventesimo secolo, i democratici alla fine.